30 luglio 2006

Io e Palmieri

un racconto di Giuseppe Bottero

Palmieri spegne la sigaretta e si gratta l’uccello. La sofferenza si lascia ascoltare anche così: con un bruciore insistente fra i punti che sigillano la ferita.L’infermiera posa il barattolo arancione vicino al davanzale, in mezzo a una pila di riviste con i colori maliziosi, con le vagine nascoste dai titoli di cronaca.Quella di Palmieri è un’ossessione, per le vagine.La notte scorsa ha sognato una vagina immensa, minacciosa, e una siringa che lo infilzava nel braccio ogni volta che provava ad entrare.L’infermiera puzza di minestra di verdura, e la sensazione, all’interno della camera bianca, viene amplificata dagli odori neutri degli strumenti metallici.Palmieri cerca un varco fra le riviste. Fuori c’è un’auto a motore acceso, immobile, e un adolescente pallido, un albanese probabilmente.Io sono sdraiato sul letto e controllo Palmieri con gli occhi socchiusi, deglutisco rumorosamente per riportare il mio amico alla realtà, per dimostragli che ci sono, obbedisco, insomma, per ricordargli la mia presenza.Cinque minuti più tardi Palmieri si volta e distende i muscoli del viso. Giovanni, mi dice, Giovanni.Non ho voglia di rispondere, preferisco lasciarlo in compagnia delle sue vagine, dei suoi punti, del suo uccello malandato, fatto a pezzi dalla sofferenza.Lui insiste.Giovanni, riprova, perché non ce ne andiamo?Palmieri carica le vocali di un effetto soporifero, come se il suo essere meridionale andasse accentuato in momenti come questo.Sbuffo, osservo la parete bianca, tutto questo bianco finirà per rapirmi, penso, finirà per rendermi impermeabile alle novità, ai cambiamenti.Ti aspettavi ti ritrovarti qui? continua, e io voglio pensare in silenzio, solo, vorrei essere lontano, tornare liquido, tramutarmi in nulla.

Qualcuno si ricorda di Palmieri?Facile. Impossibile dimenticarsi dell’uomo che, indossando solo una tuta e un paio di pantofole, riuscì a stabilire il record di apnea in acquario. Con la presenza di piranha.Quell’uomo era Palmieri.Palmieri ha vissuto a velocità insostenibili per chiunque, tranne me.Ogni tanto sfoglia un album, dove conserva i ritagli di giornale più preziosi.In secondo piano, in ogni fotografia, c’è un uomo che sorride. Sono io.Non mi sono mai arreso all’evidenza: io esisto grazie a Palmieri.Io penso, e sono Palmieri. Io soffro, e lo faccio alla maniera di Palmieri.Io sono Palmieri, mi dico, e sorrido adolescente, sorrido per convincermi che sto dicendo la verità.Le sensazioni nascono da un capello, a volte, dalla meschinità di riuscire ad analizzare i dolori più piccoli, quelli che non riusciremmo neppure a descrivere senza un substrato di egoismo che ce li amplifica, che li dispone in ordine.I denti di un piranha, ripeteva Palmieri, non sono nulla rispetto alla soddisfazione di guardare la propria ex moglie e rendersi conto dei suoi fianchi stanchi, del viso senza cura, del grasso che deforma i fuseax nei punti più impensabili, tipo le cosce, ma giù in basso, nei pressi delle rotule.Si capisce solo dopo le sofferenze, sussurrava Palmieri dopo l’incidente, e vederlo così orgoglioso del proprio fallimento era un sollievo per tutti.Io, l’avrete capito, sono il suo assistente.Vesto comodo, mangio poco e male, curo maniacalmente i miei denti e i conti di Palmieri: l’uomo dei record.

A quindici anni persi la verginità con una donna più anziana, intorno alla sessantina.Se avessi il denaro sufficiente per pagarmi un analista credo che evidenzierebbe questo punto come la causa dei miei problemi comportamentali.Come se ne avessi davvero, di problemi.Voglio solo bere aperitivi fino a vomitare e seguire il mio assistito, io, vi sembro un uomo problematico?Voglio vomitare e sentirmi pulito, io. Voglio bere e scoppiare e ridere alle battute dei baristi e sentirmi accettato, io, vi pare poco?Sono ambizioni queste. Essere puliti, intendo, essere bianchi come le stanze di questo ospedale, e vomitare di nuovo, con gli occhi arrossati e un sapore di città tutto intorno alla bocca, sugli angoli delle labbra, sui baffi, sul pizzo, sul colletto: città dappertutto, per me, grazie e arrivederci.Le città sono così pulite, sono l’anticampagna, io.Sono Milano, Torino, Firenze, Berlino.Sono una metropolitana che si incunea nelle gallerie, io, sono un lampione acceso senza moscerini.Palmieri dice Giovanni, andiamocene.Lo seguo.Il medico ci guarda e finge di non riconoscerci, sono le sette di sera e il suo turno è alla fine, lascia che ci intrufoliamo negli interstizi fra le otto ore di uno e le otto ore di un altro, un disperato come lui, uno che ha i soldi ma li spreca in campagna, li comprime in un giardino carico di sementi costose, senza stile, senza la simmetria perfetta mia e di Palmieri, l’uomo dei record.Io sono un’aiuola e lui è il mio giardiniere, cesella i miei bordi, amplifica le mie asperità, coltiva il mio inquinamento con cura, con perfezionismo.

Il ragazzo albanese è ancora li, nel parcheggio vuoto, seduto di fianco all’automobile verde. Ci guarda, accende una sigaretta. È solo, ma non sembra soffrirne.Probabilmente ha metabolizzato la sua solitudine e l’ha trasformata in qualcosa di diverso, come una patina gelatinosa che lo difende da tutto, anche dal mio sguardo curioso, dall’esordio poco elegante di Palmieri, che lo fulmina così: Cazzo guardi? gli dice, ci stai aspettando? Il ragazzo si alza di scatto, scrolla le spalle per discolparsi, tossisce piano e risponde con gentilezza, Certo signor Palmieri, sono qui per accompagnarla alla sfida.La vedete la coincidenza che sfalda il vissuto delle persone?La riconoscete, bastarda, infilarsi fra i denti dei piranha? E che c’entrano i piranha, soprattutto? Hai presente le donne della televisione, sussurrerebbe Palmieri, è così difficile capire la loro vera età. È come con i piranha, tu infili la testa nella boccia piena d’acqua, cerchi di azzerare i pensieri e poi parti con l’espirazione, butti fuori l’aria e le immagini, e loro si caricano di significati, ma li sbatti fuori così, con lentezza, ostinato a centellinarli, a non fare né sbalzi temporali in quello che vedi né a sprecare l’aria.È come guardare le donne alla televisione, e girarsi verso il proprio tinello pieno di roba inutile, con una ciclette che usava la vostra ex moglie e le pentole sporche nel lavello. Non si soffre perché dietro lo schermo le donne sono immobili, immobilizzate anzi, e tu non riesci a soffrire vedendole.Devi sintonizzare respiro e vissuto, sussurrerebbe Palmieri, per questo è il mio giardiniere, perché mi prende per mano e mi dirige, Palmieri.

Il ragazzo albanese ci lascia entrare in macchina, accende la radio, infila la sigaretta nel posacenere.Palmieri si siede davanti, di fianco al ragazzo. Io, sui sedili posteriori, mi sfilo le scarpe senza che loro possano accorgersene, come si fa da ragazzi, sdraiati sul divano insieme a una fidanzata timida: sfilarsi le scarpe diventa un piacere sotterraneo.Sapete dove stiamo andando, esordisce.Se il mondo fosse più riconoscente con i suoi campioni, la soluzione sarebbe ovvia: l’albanese che architetta un rapimento, imbeccato da qualche politico magari, e cerca di far sparire Palmieri.Io potrei intervenire, per esempio.Se avessi più concentrazione, riuscirei a capire, sono sicuro.Invece entriamo in un capannone enorme come ce ne sono troppi, e ci sediamo su questa panca col ragazzo albanese che fuma, come tutti i ragazzi albanesi.La sfida. Palmieri contro l’ex moglie, la Marisa.Che arriva vestita come una bagascia, ci guarda (in realtà guarda Palmieri) e sibila piano Franco, neppure per la separazione, potevamo fare le cose normali.Franco mi allontana con un gesto della mano, o forse allontana i pensieri che il suo nome può provocare, come se il cognome, quello sì, fosse il vero motivo della sua forza.

I primi anni del loro matrimonio furono infelici come quelli di chiunque altro, ma le cose iniziarono a peggiorare dopo il licenziamento di Palmieri. E il mio, ovvio.Pensavamo di prendere in gestione un bar bocciofila, poi l’idea.Le immersioni. In fondo, il tempo dei pensieri in un bar bocciofila sarebbe stato dilatato, confuso. Dentro un acquario no, i pensieri si espellono in fretta, senza fiato, senza pulizia. Come in una vagina. L’immersione in acquario è una penetrazione, in fondo, una gara di resistenza skippata rapida: contare e resistere, contare e resistere. Poi buttar fuori tutto e svenire appesantiti, distogliere lo sguardo. Palmieri mi guarda e dice Giovanni, stavolta non posso farcela, insomma, contro questa donna, che è una vipera e una puttana, è vero, eppure io posso amarla ancora.Intanto è arrivata della gente, qualche curioso si è fatto vivo insieme all’avvocato, per godersi la scena del Palmieri in pezzi.Franco Di Benedetto detto Palmieri, come se il cognome della madre fosse un soprannome o un titolo nobiliare.In mezzo al capannone ci sono due vasche, questa volta non è questione di immergere la testa: per la sfida l’immersione è totale.Franco si spoglia, rimane con queste mutande grigie che in ospedale coprivano a fatica i punti, il cotone, le garze: non ce la farò, ripete: non ce la posso fare.La Marisa, lei, è sprezzante e rassegnata: coniuga i due stati d’animo, li mischia con tutta la rabbia che può.Ogni tanto mi si avvicina. Giovanni, dice, ma guarda come cazzo stiamo messi, a gareggiare così per risolvere un matrimonio.Io non rispondo mai, io sono la città e la città è muta, copre i silenzi imbarazzanti con il rumore: non fa nulla per lasciarsi ascoltare, non fa nulla per tendere l’orecchio.Del ragazzo albanese si sono perse la tracce, inscenare rapimenti è troppo sforzo per un ragazzo albanese, meglio accompagnare un campione alla sfida e via dalle balle, se sei un ragazzo albanese.Palmieri si immerge nella vasca, che in realtà è una boccia enorme, poi esce di scatto e lascia spazio alla Marisa, che ha un bikini rosso e più che una sfidante sembra una sirena bulimica: la gente sussurra qualcosa e Palmieri li zittisce, il campione.E dentro la vasca questi piranha hanno un’aria mansueta, meglio così: l’ultima volta, in una sfida integrale contro un cinese di Massa Carrara, Palmieri stava per rimetterci l’uccello, così capite che vuole dire starsene in ospedale sdraiato con i punti che sembrano marcire e solo un assistente a bagnarti le ferite.30 secondi.Marisa dopo mezzo minuto esce dalla vasca: non ci riesco, sbotta: non posso.La gente sorride e cita Il gladiatore quando arriva il Franco: come se bastasse paragonare il mio amico a uno stronzo di antico romano, per capirne la grandezza.Al terzo minuto di apnea i piranha cominciano a puntare la ferita, proprio lì.

Come dei travestiti caricati in macchina, che ti fissano e puntano lì.Riuscite a vederlo, questo uomo, immerso fino ai capelli in una boccia gigantesca, con un attrezzo malandato e tutti i pensieri che gli escono in fretta: vagine: respirare: buttare fuori il marcio: respirare: ancora le vagine: e resistere, poi, che non è facile per niente con la Marisa lì vicino.Riuscite a vederlo, dicevo?Io no, troppo dolore, tutte queste immagini che si stampano sulle pareti trasparenti della boccia, meglio coprirmi gli occhi, distogliermi dalle sensazioni tremende che assorbo tramite il vetro.È che il mio ruolo di assistente comprenderebbe anche le sofferenze, mica solo i successi.Ma questa gara è l’ultima, Franco tornerà con la moglie. Ormai ha vinto, no? La Marisa glielo deve: provo a sfidarti, se vinco mi lasci in pace, ha detto. Invece no, un campione resta un campione anche nella difficoltà.Di me, purtroppo, non rimarrà nulla. Ormai sono una vigna, una frazione, un casolare di campagna. Una strada sterrata di fianco a un capannone: mi sento così, senza più nessuna parvenza di città.Mi godo la felicità di vedere Palmieri in quella boccia, che inizia a sorridere verso la Marisa, verso la loro prima notte insieme dopo qualche anno.Sarà bello, sapete? Peccato solo per l’uccello malandato, per quei punti che continuano a marcire dentro l’acqua che si sporca di rosso.